Azioni: ritorno alla normalità?
I profitti aziendali sono in ripresa e i mercati azionari sembrano essersi calmati dopo il grande movimento a V del 2008/2009. Si tratta del primo segnale di un ritorno alla normalità? Probabilmente no, almeno non nel suo significato tradizionale. L’anno scorso è emerso il concetto di “nuova normalità”, per indicare la possibilità che la realtà economica, nei prossimi anni, differisca in modo significativo da quella a cui siamo stati abituati finora. Se così fosse, quali sarebbero le conseguenze per gli investitori azionari?
Normalità, secondo Wikipedia, vuol dire “essere conforme a una media”. Gli investitori professionali, più di tutti, hanno adottato questo concetto, estrapolando continuamente medie di lungo termine per fare previsioni su risultati futuri. La parola chiave qui è “lungo termine”. In ogni generazione, almeno un paio di volte, i trend economici mostrano importanti rotture che contraddicono le previsioni.
Guardando agli ultimi 60 anni, alcune di queste rotture sono ovvie. Gli anni ’50 e ’60 sono stati caratterizzati dal boom del dopoguerra, che ha portato all’overshooting sociale degli anni ’70, con il formarsi della spirale stipendi-inflazione-tassi di interesse. Questo causò una chiara rottura del trend. Gli anni ’80 e ’90 sono stati invece caratterizzati da un’inflazione in declino, dalla globalizzazione e dalla digitalizzazione. E da maggiori rendimenti degli investimenti. Questo ha portato a un overshooting capitalistico nel decennio appena passato. Tassi di interesse molto bassi e la tendenza delle banche a concedere facilmente prestiti hanno causato una bolla immobiliare e un’enorme quantità di debito. Questa eredità potrebbe ora causare una nuova rottura del trend, un nuova “normalità”.
I più importanti mercati sviluppati hanno livelli di debito totale (pubblico più privato) che vanno dal 300 al 350% del PIL, il più alto livello della storia. Questo è insostenibile! E’ necessario che tali carichi siano ridotti da un aumento dei risparmi o che siano “erosi” dalla crescita dell’inflazione. Visto che per il futuro non ci aspettiamo un aumento dell’inflazione, il compito dovrà essere svolto dai risparmi. Un tasso di risparmio più alto potrebbe minacciare la crescita futura dell’economia, così come una politica di prestiti più cauta delle banche. Questo aumenta le probabilità che, nei mercati sviluppati, la crescita “normale” avverrà a ritmi molto più lenti di quanto accaduto finora. I mercati emergenti potranno in parte compensare questo fenomeno, ma non del tutto.
In un contesto di inflazione bassa e crescita modesta, le società dovranno adattarsi a una crescita più lenta degli utili (dopo la ripresa del 2010) e gli investitori a rendimenti più modesti. Parlando di “lungo termine”, sebbene i dividendi non siano stati la componente principale dei rendimenti azionari degli ultimi 30 anni, dal 1900 ne hanno rappresentato il 70% e adesso è probabile che tornino ad essere il loro driver principale. Per chi volesse investire in azioni concentrandosi sul reddito, ci sono tanti titoli value caratterizzati da discreti dividend yield. Per chi, invece, preferisse concentrarsi sulla crescita, le cose diventano un po’ più complicate. I mercati emergenti e le materie prime sono due asset class, altamente correlate, note per avere un buon potenziale di crescita, ma si tratta di eccezioni. In passato anche il settore tecnologico e quello farmaceutico erano etichettati come investimenti “growth”. Individuare potenziali di crescita rilevanti, ormai, è diventata sempre più una questione di stock picking, nella quale forse possono avere maggiore successo i gestori caratterizzati da uno stile di investimento tematico.
Per concludere, nel concetto di “nuova normalità”, è probabile che i rendimenti azionari saranno modesti (con una media di circa il 7% all’anno) e gli investitori dovranno sempre più distinguere tra strategie finalizzate al reddito o alla crescita.