Autopsia SVB: la California fa mea culpa
Crac SVB: dopo quello della Fed, arriva il mea culpa della California
SVB (Silicon Valley Bank): va avanti negli Stati Uniti quella che è stata definita l’autopsia sulla banca californiana delle start up, saltata in aria alla metà del mese di marzo, sulla scia di una fuga di depositi che non le ha lasciato scampo.
Il crac dell’istituto di credito regionale ha ufficialmente sancito l’inizio della nuova crisi delle banche di cui si continua, a distanza di settimane, a parlare, a causa dei successivi fallimenti di Signature Bank e di First Republic.
E’ stata First Republic, in particolare, a riportare l’ansia per il destino delle banche a Wall Street, dopo un periodo di calma (apparente) sui mercati, che aveva fatto sperare nella fine della paura di un evento Lehman Brothers: paura che aveva attanagliato gli investitori di tutto il mondo, complice la crisi made in Usa ma anche made in Switzerland, culminata nella fine dei giochi, in quest’ultimo caso, per Credit Suisse (e i suoi bond).
Il bank run che ha colpito First Republic ha costretto le autorità americane che vigilano sui mercati a intervenire di nuovo.
In quest’ultimo caso, la soluzione è stata individuata nell’acquisizione di tutti i depositi (garantiti e non) e di gran parte degli asset della banca da parte di JP Morgan, il colosso di Wall Street capitanato dal ceo Jamie Dimon, che più volte nelle settimane precedenti si era messo in evidenza con le iniezioni di liquidità a favore dell’istituto.
Il KO di First Republic ha innescato un nuovo panico a Wall Street, che ha visto protagoniste, stavolta, almeno in Borsa, le vittime PacWest e Western Alliance.
SVB: il mea culpa della Fed: troppo lenta a gestire il caso
In un’America in cui è caccia al colpevole, non è certo invidiabile la posizione in cui si trovano le autorità federali, ma anche statali, americane.
Qualche settimana fa è stata la stessa Fed a fare mea culpa, ammettendo di non essere riuscita a prevenire il collasso di SVB.
Nell’articolo “Fed autopsy on SVB faults bank’s management — and its own oversight”, la giornalista Allison Morrow ha parlato proprio di questo mea culpa post mortem da parte della Federal Reserve (banca centrale americana).
In un report dedicato al crac di Silicon Valley Bank, avvenuto il 10 marzo scorso, la Fed ha ammesso, di fatto, di “non essere riuscita a valutare a pieno il livello delle vulnerabilità” di SVB, negli stessi anni in cui la banca “cresceva in dimensioni e in complessità” : dunque, di non aver adottato quelle “misure sufficienti” che, se lanciate in tempo, avrebbero forse permesso a SVB di affrontare e gestire velocemente i suoi problemi di liquidità.
La Fed, con quel report, faceva riferimento a come le autorità di vigilanza, essa stessa in primis, erano state fossero state troppo lente nel gestire il caso.
Anche la California fa un esame di coscienza
Nelle ultime ore, un altro mea culpa è arrivato dall’autorità preposta al controllo delle banche dello stato americano della California, ovvero dal dipartimento della protezione finanziaria e dell’innovazione California Department of Financial Protection and Innovation (DFPI).
L’autopsia effettuata da questa autorità ha dato un esito simile a quello a cui è pervenuta l’analisi della Federal Reserve.
Non per niente, la California continua a confermarsi epicentro della crisi bancaria esplosa negli States.
Non solo SVB: anche First Republic è stata una banca californiana, con sede a San Francisco; e con sede in California è anche PacWest, nota come la banca di Beverly Hills, Los Angeles.
Il dipartimento DFPI, così come la Fed, ha ammesso di non essere riuscito a individuare i rischi legati ai casi di quelle banche che sono diventate troppo grandi troppo velocemente, come, per l’appunto, Silicon Valley Bank.
L’autorità ha anche ammesso di non essere riuscita a identificare il rischio potenziale rappresentato dalla presenza di una quantità rilevante, nella banca, di depositi non garantiti e, dunque, di non essere riuscita a prevedere il rischio di una corsa agli sportelli.
Per riparare al danno che non è riuscita a tamponare, la DFPI ha annunciato alcune proposte volte a proteggere le banche e i loro clienti da “una destabilizzazione economica futura”.
Tra queste:
- La possibilità che il dipartimento lavori con le autorità federali per creare “sistemi migliori e più veloci, che permettano alle banche di risolvere i loro problemi”.
- La proposta di dare la priorità alle banche più grandi, che dispongono di un valore più alto di asset, espandendo i team deputati alla supervisione di quegli istituti che si espandono velocemente, come è avvenuto nel caso di SVB.
- Controlli maggiori sui depositi non assicurati;
- Informare le banche su come debbano gestire i social media, in un contesto in cui si dà a Twitter e ad altri social la colpa di aver allargato a macchia d’olio l’alert su SVB, e dunque di aver contribuito a scatenare la fuga dai depositi, con i toni di diversi post considerati da alcuni troppo allarmistici.
Non per niente la stessa associazione American Bankers ha dedicato un articolo su come Twitter abbia praticamente dato ai depositanti di SVB un megafono, che ha amplificato il panico per le sorti dell’istituto:
secondo questa versione sarebbero stati i fondatori delle start up e gli attori del venture capital a decretare la morte della banca, lanciando l’allarme con i loro tweet e accelerando la corsa agli sportelli.